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STORIA


E vigorosa è la razza che abita l’Abruzzo. Qui s’incontrano ancora i veri e genuini pastori degli antichi tempi. Da più che mille anni essi non hanno punto cambiato costumi e usanze, poiché anche il loro culto cristiano non è che paganesimo leggermente inverniciato. Son belli e forti, abbronzati e aitanti della persona, ma d’animo mite assai: passan l’estate sotto una leggera capanna di paglia col can da lupo per compagno ed amico, la litografia del santo patrono incollata ad una rupe per protettore, e per diletto l’istrumento di Pane, la stridula zampogna, appesa all’ingresso della capanna, mentre le donne nella valle attendono alla casa. D’inverno se l’orso e il lupo si mostran sulle pendici, cambiano il bastone con il lungo moschetto, o bene spesso emigrano a portare nella malsana campagna romana incolta o nell’immenso tavoliere di Puglia le loro greggi o a cercare guadagni in lavori agricoli.
Enrico Abbate 1903. Guida dell'Abruzzo

 

ABRUZZO ANTICO

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 “E quindi passai in terra d’Abruzzi dove gli uomini e le femmine vanno in zoccoli su pei monti, rivestendo i porci delle lor busecchie medesime; e poco più in là trovai genti che portavano il pane nelle mazze e il vin nelle sacche; da’quali alle montagne dei Baschi pervenni” (Boccaccio, Decameron,)

 

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Le prime testimonianze della presenza dell'uomo in Abruzzo risalgono al Paleolitico inferiore (ca. 2,5 milioni di anni fa - ca.120.000 anni fa), con alcuni ritrovamenti avvenuti soprattutto in Val Vibrata (TE) e nella Valle Giumentina, situata quest' ultima nel comune di Abbateggio (PE), ai piedi della Majella occidentale, dove sono state scoperte tracce dell'Homo Erectus datate circa 650.000 anni fa. In questo periodo preistorico lo stile di vita dell'uomo era contraddistinto dal nomadismo stagionale legato alle condizioni climatiche e dalla lavorazione della pietra per la creazione di utensili utilizzati come strumenti da caccia. 
Al Paleolitico superiore (35.000 a.C. - 8.000 a.C), periodo in cui fa la sua comparsa l' Homo Sapiens Sapiens, risalgono tracce di insediamenti umani rinvenute lungo i corsi d'acqua della regione, come il fiume Tavo, in quanto garantivano maggiori probabilità di fruttuose cacce. In particolare, nel territorio di  Montebello di Bertona (PE) sono stati ritrovati i resti di un accampamento datato circa 13.000 anni fa, con caratteristiche litiche talmente peculiari da indurre gli studiosi a riconoscere una cultura bertoniana; inoltre, tracce di uno stanziamento con capanne di frasche sono state scoperte sempre a Montebello, in un vasto pianoro a destra del torrente Gàllero, denominato Campo delle Piane, attestando per la prima volta l'esistenza di dimore all'aperto in Italia. 
Con l'avvento del Neolitico (ca.10000 a.C. - ca.3500 a.C.) assistiamo ad una maggiore stabilità delle popolazioni e alla diffusione di attività inerenti l'agricoltura e l'allevamento del bestiame. “Con gli inizi del Neolitico si verifica una vera e propria rivoluzione nel rapporto dell’uomo con l’ambiente, in particolare nel passaggio da forme di economia di sussistenza legate alla caccia e alla raccolta di frutti spontanei della natura, a nuove forme economiche collegate all’introduzione sistematica dell’agricoltura. (...) Rispetto alla fascia pedemontana, interessata da tali forme di popolamento permanente, và distinguendosi un’area montana a quota più alta, con forme di frequentazione stagionale connesse all’allevamento transumante ed allo sfruttamento delle risorse montane”- (M.P.Moscetta, Neolitico ed Età del Rame, Teramo 1996). Numerosi reperti dell'epoca sono stati riportati alla luce lungo i corsi d'acqua di Tronto, Tavo, Foro, Orta e Aterno. Agli inizi del Novecento a Lama dei Peligni (CH), in località Fonterossi, fu rinvenuto tra i resti di un villaggio di capanne lo scheletro del cosiddetto "Uomo della Maiella", testimonianza di una sepoltura risalente al 7000-5000 a.C. 
Un'altra innovazione del Neolitico fu la produzione della ceramica, che in Abruzzo prende il nome di cultura di Catignano, dalla località situata nei pressi di Pescara, dove si ebbe il primo ritrovamento di ceramica dipinta a bande rosse con decori in nero, tipica dell'Italia meridionale. Questa cultura è collocabile tra la fine della fase della Ceramica Impressa abruzzese-marchigiana (4200 a.C.) e l'inizio della cultura di Ripoli (3700 a.C.), come dimostrano anche i livelli della Grotta dei Piccioni a Bolognano (PE) e della Grotta di S. Angelo di Civitella del Tronto (TE). La cultura di Ripoli deriva il suo nome dal villaggio rinvenuto nella contrada eponima di Corropoli, in provincia di Teramo, e si sviluppò fino al 2.200 a.C., epoca in cui iniziò l'Età dei metalli. Essa, oltre a diffondere i propri elementi tipici su un territorio piuttosto vasto, ricevette l'influsso di altre culture del neolitico italiano. 
Durante l'Età dei metalli (III - I millennio a.C.) l'allevamento e la transumanza continuarono ad essere praticati dalle comunità dell'epoca: “In Abruzzo si assiste ad un forte investimento nei confronti dell’allevamento, con l’introduzione della pratica della transumanza verticale stagionale”- (D’Ercole, L’Italia nella protostoria, Pescara 1998). Tuttavia, in svariati posti abruzzesi, soprattutto in territorio marsicano, si hanno testimonianze di lavorazioni in rame e in bronzo databili dal 2000 a.C. 
All’Età del ferro risalgono diversi reperti, molti dei quali di natura funebre. Tra questi vi è una scultura in calcare tenero, datata al VI secolo a.C. e raffigurante un guerriero, che è stata ritrovata nella necropoli di Aufinum, antica città dei Vestini situata nell’odierna località di Capodacqua, all’interno del territorio di Capestrano (AQ). La statua del guerriero è diventata la maggiore testimonianza archeologica in Abruzzo.

In questo periodo storico, con l'espansione di popolazioni destinate da lì a poco ad entrare nell'egemonia romana, si hanno i primi ampi insediamenti e centri fortificati. 
Le dieci popolazioni di epoca preromana stanziate nel territorio abruzzese furono i Frentani, i Carricini, i Pentri, i Marrucini, i Peligni, i Marsi, gli Equi, i Vestini, i Sabini e i Pretuzi. Con la conquista romana i centri avranno un incremento delle loro attività agricole e pastorizie e un importante sviluppo culturale ed economico.  
Non essendoci un centro politico, le numerose città dell'Abruzzo, di antichissime origini e brillante civiltà, seguirono ciascuna la propria storia indipendentemente. Sull'origine di Touta Marouca (chiamata poi Teate e infine Chieti) non ci sono testimonianze. Marruvium e Corfinium furono centri preromani. Atri, Alba Fucens e Amiternum fiorirono sotto l'Impero romano, mentre Sulmona e L'Aquila nel Medioevo. Pescara e Avezzano si svilupparono in maniera sempre più importante a partire dalla fine del XIX secolo.

VESTINI
Dal commento di Pietro Marso ai Punica di Silio Italico sappiamo che i Vestini confinavano da un lato con i Peligni e i Marrucini, in un'area che <<si estendeva fino al fiume Tronto>>, dall'altro lato con i Sanniti e i Campani. Erano famosi per il loro formaggio, chiamato dai Romani Caseus Vestinus. De quo Martialis: <<si sine carne voles ientacula sumere frugi, haec tibi Vestino de grege massa venit>> . 
L'antico formaggio dei Vestini è il Pecorino di Farindola (PE), citato dagli antichi, la cui cagliata veniva fatta asciugare in apposite ceste di giunco chiamate fiscelle. Il monte Fiscello citato da Silio nel suo poema fu causa di dissidi per la sua topografia, tant’è che il poeta lo attribuisce ai Vestini, mentre il Marso parla di un oppidum. Forse faceva parte della catena del Gran Sasso.
L'antica capitale dei Vestini fu Pinna, che corrispondeva all'attuale Penne, in provincia di Pescara. Il toponimo deriva dal latino "pinnus", ossia acuto, appuntito, poiché il primo villaggio italico fu costruito con funzioni difensive sopra un'altura aguzza. 

FRENTANI
Come scrisse Pietro Marso nel commento succitato, i Marrucini e i Frentani <<vivevano lungo la costa adriatica>> fino al confine con l'Apulia [Puglia] e, dall'altro lato, confinavano con il territorio dei Piceni, <<dai quali erano separati dal fiume Tronto>>. I Frentani erano chiamati così dal nome di un oppidum frentano che si trovava vicino Theanum Appulum.
Gli antichi Frentani abitavano i bacini dei fiumi Fortore, Biferno e Sangro. Il loro etnonimo non è di origine osco-umbra, ma deriva dalla capitale Frentum. Anche il fiume Fortore era anticamente chiamato così. Capoluogo dei Frentani era Anxanum, ora Lanciano (CH), mentre Ortona era il loro principale porto commerciale. Tra le varie città frentane cito Pallanum che è stato trattato in una sezione del sito.
Teano Apulum, detta anche Tiati, è stato identificato con l'insediamento localizzato nei pressi del moderno centro di San Paolo di Civitate (FG), sulla riva destra del Fortore.
MARRUCINI
I Marrucini furono un popolo di guerrieri, di origine illirica, che subì l’influenza osco-umbra. Il loro territorio corrispondeva all’attuale basso Abruzzo, nell’area del fiume Aterno-Pescara.
Il centro più importante dei Marrucini fu Teate, l’odierna Chieti. Ci sono diverse leggende sulla sua origine. Una di queste si mescola con la mitologia, in quanto racconta che la città fu fondata nel 1181 a.C. da Achille, che la chiamò Teate in onore della madre Teti. Recentemente si è anche pensato che essa fosse stata fondata dai Pelasgi in onore della ninfa Teti (dal greco Thètis, Θετις).
L'attuale Chieti divenne capitale dei Marrucini dopo che questi, spostatisi dal villaggio di Touta Marouca presso Rapino (Ch), si insediarono sul colle della Civitella, in una posizione strategica sulla via del tratturo, sul mare e sulla via Tiburtina Valeria. L'antica Teate si sviluppò a partire dal II secolo a.C., ma soprattutto durante l'epoca imperiale, quando divenne municipio romano; i Romani la chiamavano <<Teate Marrucinorum>>.
Durante la guerra sociale (91-88 a. C.) perse la vita un famoso condottiero marrucino di nome Asinio Herio, sconfitto da Gaio Mario nel 90 a.C. Egli era definito <<praetor Marrucinorum>> da Tito Livio e fu, molto probabilmente, il nonno dello scrittore romano Gaio Asinio Pollione. In suo onore Chieti gli ha dedicato la strada della circonvallazione ovest.
Prima della dominazione romana Teate era sviluppata nell'area del colle della Civitella, dove si trovava la cittadella fortificata con l'acropoli e i templi dedicati alla Triade Italica; uno di questi, con la conquista romana, verrà dedicato ad Achille.
Testimonianza della Teate romana sono i resti archeologici di un anfiteatro, costruito lungo le pendici orientali dell'antica acropoli della Civitella; di un teatro, collocato fuori del quartiere della Civitella, verso il centro di Chieti; delle terme, situate nella zona orientale della città; dei templi romani, che si trovano in piazza dei Templi romani, comunemente detti tempietti di San Paolo; e di altri importanti reperti

MARSI
I Marsi furono un popolo italico di lingua osco-umbra, insediato nel I millennio a.C. nel territorio circostante il lago Fucino, corrispondente all'attuale Marsica. 
Nel commento ai Punica di Silio Italico Pietro Marso, ricordando l’indole guerriera di questo popolo (acres populos), cita un verso delle Georgiche di Virgilio: <<Haec genus acre virum Marsos pubemque Sabellam>> (georg. 2, 167).
Attenendosi ai versi di Silio (<<sapevano combattere e addormentare con formule magiche i serpenti e renderne inoffensivo il dente avvelenato con erbe e incantesimi>> 8, 496-97), l’umanista commenta che i Marsi <<si opponevano ai serpenti come i Psyli in Africa e gli Oblongenes nell’isola di Cipro>> (Plin. nat. 7, 14 e 28, 30). Aggiunge che essi praticavano la magia delle erbe, <<la maggior parte delle quali nasce sui monti dei Marsi>> (cfr. Verg. Aen. 7, 758).
Poi il Marso si sofferma sull'origine del nome di questo popolo, commentando che secondo Plinio il Vecchio il capostipite fu <<Marso, figlio di Ulisse e Circe>> (nat., 7, 15); mentre, secondo Silio, l’etnonimo deriva dal musico Marsia che <<gareggiò contro Apollo e, dopo aver vinto, sì trasferì presso i popoli che da se stesso chiamò Marsi>> (cfr. Punica 8,501-504). Un’altra versione sostiene che i Marsi abbiano preso il loro nome da <<Marsia, capo dei Lidi, che fondò in quel luogo Archippe, un oppidum assorbito in passato dal lago Fucino>> (Plin. nat. 3, 108). Secondo Apuleio, Hyagnis <<fu padre di Marsia e gli insegnò la musica>> (flor. 3, 1).
L’umanista abruzzese aggiunge che Marsia era vultu ferino, trux, hispidus, multo barbatus, spinis et pilis obsitus (<<dallo sguardo ferino, minaccioso, irsuto, molto barbuto, pieno di peli e capelli>>). Inoltre, <<Marsia fu il fiume della Frigia, presso Celene>> (Cfr. Liv. 38, 13, 6), nelle cui rive crescevano optimae harundines ad cantum [letteralmente: <<i giunchi migliori per il canto>>]. <<Per questo motivo nacque la favola sul musico Marsia>>.
Secondo alcune fonti storiche, in particolare Plinio il Vecchio, il culto dei serpenti era diffuso in Marsica, ma anche in Libia, in Egitto e a Cipro. C’è chi ritiene che questa dote fosse appannaggio anche di una casta sacerdotale: nel suo poema Virgilio attribuì a un sacerdote della gente marruvia, Umbrone, il potere di infondere il sonno, con la mano e con il canto, a idre e serpenti di cui era anche in grado di curare il morso (Aen., 7, 752-55). 
Indico un sito interessante sui Marsi, i serpenti e gli incantesimi: https://www.espressione24.it/etiam-in-nocturna-quiete-i-marsi-i-serpenti-e-gli-incantesimi/

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Marruvium (San Bendetto dei Marsi): La scoperta di iscrizioni con numerosi e splendidi resti dell’antichità ha fatto subito stabilire nel modo più convincente di Marruvium a San Benedetto, sulla riva del lago Fucino. Lapidi che descrivono Marruvium come una splendidissima civitas, ricorda Modestus Paulinus, che fu prefetto della città, e delle Feriae Latinae; fu anche questore della città e pretore delle quindici città dell’Etruria, curator della splendida città di Marruvium e nello stesso tempo delle vie Tiburtina e Valeria. Febonio ricorda un’altra iscrizione esistente nella chiesa di Santa Sabina, nella quale la Civitas Marsorum, Marruvium, è nominata: “Aliamque in ecclesia Sanctae Sabinae, olim Cathedralis, in fronte capsae lapideae”. Possono essere rintracciate la circonferenza e le mura esterne di uno spazioso anfiteatro. Dalle rovine di una antico edificio, composto di pietra di opus reticulatum, parecchi busti e statue furono scavati pochi anni addietro e inviati al palazzo reale di Caserta. Secondo la tradizione popolare, la città chiamata Valeria un tempo occupava questo luogo, ma questa tesi non poggia su buoni argomenti; invece la priorità di Marruvium è abbastanza provata da documenti esistenti. San Benedetto è nel tempo presente ridotta a poche case, occupate da un piccolo numero di miserevoli abitanti: essa è soggetta alla giurisdizione di Piscina, sede di un Vescovo, a due miglia di distanza. La vecchia chiesa di Santa Sabina godeva del nome e dei privilegi di una cattedrale. Secondo Febonio, essa una volta aveva molte iscrizioni, ma queste, come la struttura che le sosteneva, sono andate in rovina per l’abbandono.

Richard Colt Hoare 1791 "I miei diari di viaggio attraverso l’Abruzzo"

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San Benedetto dei Marsi: San Benedetto che occupa il sito di Marruvium, la capitale dei Marsi come scrive Silius Italico (Pun. VIII, 507): “Marruvium, veteris celebratum nomine Marri, Urbibus est illis caput”. Si possono ammirare ancora molte antiche costruzioni, e durante alcuni lavori intrapresi nell’anno 1752, riemersero alla luce, dalle profondità delle acque, alcune statue di imperatori romani, che ora si trovano nel Museo di Napoli.

"Da Roma all’Aquila e ritorno lungo la Claudia Valeria per Sulmona e la Marsica nella primavera del 1874"

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"Chi percorre le strade d'Abruzzo, seguendo pendici, coste di monte, varcando gole, percorrendo strade tortuose tra costanti immagini di rocce e rupi, non può non notare la presenza, dovunque di torri di guardia; sono quasi sempre ruderi, smozziconi, schegge murarie inerpicate in cima ad una rupe sporgente; e cosi disposte che si richiamino reciprocamente; certo teneva d'occhio i sentieri, le avare strade dell'Abruzzo antico; per la pia dissoluzione della storia, nessuno sul posto sa più chi abbia costruito queste torri, chi dovesse custodirle, quali pericoli dovessero tenere a bada."
Giorgio Manganelli

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Richard Keppel Craven 1837

I Marsi

La nazione dei Marsi, la cui origine pare avvolta in un ancora più densa nube di favolosa oscurità di quella degli stati vicini, assai probabilmente derivò dai Sabini; perciò sarebbe superfluo noioso trattare nei particolari le dotte controversie che hanno avuto luogo, e stabilire la loro discendenza da Marsia, figlia di Circe, da cui essi ereditarono l’arte della divinazione e della magia, da Tirreno, fratello di Lido, che fondò qui una colonia asiatica, o da Marsio, cioè da un uomo di Lidia. Ricordi di meno incerta natura sorgono per il periodo meno remoto in cui ebbero ostilità contro i romani un po’ più tardi delle vicine federazioni, quando furono soggiogati da quelli; di nuovo si opposero con la guerra, seguita poi da una seconda alleanza, durante la quale si dimostrarono valorosi alleati, come prima erano stati inveterati nemici. La guerra sociale, una lotta che, unendo gli sforzi di tutti i popoli successivamente piegati dall'impero romano, minacciò di scuotere dalle fondamenta la potenza della repubblica, fu parimenti chiamata guerra marsica, perché fu eccitata da queste indomite tribù guerriere; queste furono stimate ugualmente formidabili e per la loro vigorosa corporatura e per il loto valore e per la loro tenacia. Il territorio che essi abitavano e che portava il loro nome offre il solo esempio di una antica denominazione ritornata ancora nell’uso comune fino ai nostri giorni; gli stessi confini che delimitavano il distretto da essi posseduto nel più antico tempo dell’impero romano sono quelli del territorio morsicano nel secolo decimonono. Mentre i signori feudali del

medioevo assumevano il titolo di qualche particolare città, castello o territorio, i signori di questa parte del regno si chiamarono prima Castaldi e poi Conti dei Marsi, un titolo ancora onorato dalla famiglia Colonna. …Sembrerebbe affettato in ogni caso di dire: “Io vado nel Sannio” i “Io vado in Lucania”, ma parlare di un escursione ne i Marsi è ancora un modo proprio e comune di esprimersi. Le loro città si distinguono per lo stesso appellativo aggiunto al nome e il vescovo, che risiede a Piscina, invece di trarre il nome della sua diocesi da questa città, si firma Vescovo de Marsi. Spero che non sarà ritenuta come una frivola esagerazione in favore della loro identità l’osservare che gli attuali abitanti di questa regione pretendono di possedere lo stesso occulto potere, per cui si distinguevano i loro antenati di incantare i serpenti velenosi e di renderli innocui. In moltissimi luoghi del regno di Napoli è dato occasionalmente

di vedere carri che trasportano scatole piene di serpenti di ogni specie e colore, che i marsicani mostrano alla folla intenta a guardare; questi offrono nello stesso tempo, molto a buon mercato, il modo di rendere gli spettatori invulnerabili ai morsi dei serpenti. Ho spesso visto questi uomini, nei primi giorni di primavera, a Napoli, seduti su un parapetto assolato, presso il mare, che mostrano la loro collezione di rettili e che apparentemente non ricavano nessun utile dalla curiosità e dalla credulità ei presenti. L’operazione richiesta per assicurarli contro il veleno dei serpenti per l’avvenire consiste in un leggero graffio alla mano o al braccio fatto del dente di una vipera, privata del suo veleno, poi nell’applicare una pietra misteriosa alla puntura e infine nel dare all’interessato un’immagine di San Domenico di Cuculo con una preghiera.

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“V’a nella nostra lingua, tutta, in sé stessa, semplicità ed efficacia, una parola consacrata dalla intenzione degli onesti a designare molte cose buone, molte cose necessarie: e la parola Forza. Epperò, s’è detto e si dice il forte Abruzzo. V’a nella nostra lingua, tutta, in sé stessa, comprensiva eleganza, una parola che vale a comprendere definendole, tutte le bellezze, tutte le nobiltà è la parola Gentilezza. Epperò, dopo aver visto e conosciuto l’Abruzzo, dico io: Abruzzo Forte e Gentile. Epperò, dopo aver visto e conosciuto l’Abruzzo, ho detto e ripeto io: Abruzzo Forte e Gentile.”
Da noi, in Abruzzo, la gentilezza si mischia alla forza. Ma per forza si intende la resilienza, la capacità di resistere ai destini avversi”

(Primo Levi)

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SECONDA GUERRA MONDIALE

LINEA GUSTAV
 

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La linea Gustav (o "linea invernale") fu un asse difensivo costruito dai Tedeschi nel 1943, 
con l'avvicinarsi  della stagione invernale, sfruttando il tratto più stretto della penisola italiana e gli ostacoli naturali delle montagne appenniniche. La sua funzione era quella di arrestare l'avanzata degli Alleati americani e britannici diretti a Roma per liberare l'Italia. La linea si estendeva dalla foce del fiume Garigliano (versante tirrenico) alla città di Ortona (lato adriatico), tagliando in due la penisola italiana: da un lato c'era il nord occupato dai Tedeschi, dall'altro il sud in mano agli Alleati. 
Sul versante adriatico la linea passava lungo il corso del fiume Sangro, interessando i comuni abruzzesi di: Ortona, San Vito Chietino, Contrada Caldari, Miglianico, Tollo, Canosa Sannita, Crecchio, Arielli, Poggiofiorito, Frisa, Orsogna, Paglieta, Atessa, Fara San Martino, Gessopalena, Lama dei Peligni, Taranta Peligna, Lettopalena, Colledimacine, Torricella Peligna, Montenerodomo, Palena, Pizzoferrato, Gamberale, Quadri, Castel di Sangro, Roccaraso, Castelguidone.
L'asse venne sconfitto il 18 maggio del 1944, ma non fu un'operazione semplice e veloce. Infatti, passarano diversi mesi prima che gli alleati riuscissero a far arrettrare i tedeschi. Le forze nazifasciste ebbero il tempo sufficiente per radere al suolo interi borghi abruzzesi e compieri eccidi senza pietà, come quello di Pietransieri. I tedeschi razziarono ogni bene, distrussero chiese e opere storiche e compirono stragi, come l'uccisione dei Martiri ottobrini di Lanciano (ottobre 1943) e, attraverso la tattica della "terra bruciata", la distruzione totale di Gessopalena (dicembre 1943) con l'eccidio del borgo di Sant'Agata (gennaio 1944), dove i nazisti rinchiusero i civili in un unico casolare, che fu fatto saltare in aria massacrando le vittime rinchiuse all’interno. L'Abruzzo fu duramente colpito dalla Seconda Guerra Mondiale. Una delle battaglie più dure fu quella di Ortona, definita come la "Stalingrado d’Italia" (dicembre 1943): fu una battaglia combattuta nel pieno centro cittadino, per ogni via, corpo a corpo. Gli alleati ottennero la vittoria ma persero oltre 2300 uomini. 
Nel gennaio del 1944 a Casoli, sede del comando militare britannico, l'avvocato Ettore Troilo riuscì a costituire un gruppo di volontari civili chiamato Brigata Maiella. Questa formazione partigiana della Resistenza Italiana aiutò le forze alleate a liberare il territorio abruzzese e col tempo aumentò sempre più di numero e capacità, fornendo il suo supporto anche al di fuori dei confini regionali. L'inno della Brigata Maiella è intitolato "Sul ponte fiume Sangro". Il testo recitava:
"
Sul ponte fiume Sangro
bandiera nera
è il lutto della Maiella
che va alla guerra.
La meglio gioventù
che va sotto terra.
Quelli che son partiti
non son tornati
sui monti dell'Abruzzo
sono restati.
Sui monti della Romagna
sono caduti".

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Basicilica San Tommaso Ortona alla fine della seconda guerra mondiale

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SENTIERO DELLA LIBERTA'

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Durante la Seconda Guerra Mondiale, dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943, numerosi prigionieri che lottavano per la liberazione dell'Italia, divisa dalla Linea Gustav, fuggirono dalle carceri di Fonte d'Amore a Sulmona per dirigersi verso Palena e Casoli, territori già riconquistati dagli Alleati. Per arrivare alla libertà i prigionieri dovettero attraversare Pacentro e Campo di Giove e raggiungere Guado di Coccia, un punto fondamentale per l'attraversamento della Majella e per la suddivisione dei territori tra tedeschi e alleati...un punto più difficile da superare!
Per commemorare il coraggio dei fuggitivi ogni anno, nel mese di maggio, si ripercorre il "Sentiero della Libertà", un tracciato composto di tre tappe che raggiunge la sua massima altitudine proprio a Guado di Coccia. 
Fondamentale fu l'aiuto che la generosa popolazione abruzzese diede ai prigionieri per riconquistare la libertà. Tra i fuggitivi ci fu anche il nostro ex presidente della Repubblica Carlo Arzeglio Ciampi, il quale rammentava spesso la sua esperienza e la sua ammirazione verso il popolo abruzzese per il supporto ricevuto. Partì il 24 marzo del 1944 per intraprendere insieme agli altri priginionieri un viaggio difficile e pericoloso, in mezzo alla neve e con temperature molto basse: «Si progredisce molto lentamente in alcuni punti, dovendo camminare quasi a quattro gambe perché i soli piedi non fanno presa (specie io che non ho i chiodi) (...) Qualcuno comincia a scoppiare, cerco di aiutare insieme ad un altro un prigioniero che non ce la fa più: avvertiamo Alberto, ma questo dice che non può rallentare la marcia in quanto che si deve giungere al Guado di Coccia prima dell'alba, pena la sicurezza della spedizione (...) Alle quattro ormai del 25 marzo siamo al Guado» (Liceo Scientifico Statale Fermi di Sulmona, AA.VV., Il sentiero della libertà. Un libro della memoria con Carlo Azeglio Ciampi, Roma-Bari, Laterza, 2003). Dopo tanta fatica raggiunse con gli altri sopravvissuti Taranta Peligna ed infine Casoli.  Il gruppo fuggitivo incontrò per primo i patrioti della Brigata Maiella, una formazione sorta a Casoli nel dicembre del 1943, che operò per la Resistenza in Abruzzo e in tutta l'avanzata della Liberazione.




<<Erano circa le sei di martedì 14 settembre 1943, e noi quattro – Frank Cochran, Samuel Rochberg, Michael Marchant ed io – avevamo trascorso la notte in un crepaccio sul fianco del monte dietro il Campo Prigionieri di Guerra, a Fonte d’Amore, che avevamo lasciato in gran fretta domenica pomeriggio. Frank aveva cercato invano per tutto il giorno precedente di trovare un sentiero attraverso le montagne con almeno una sorgente per facilitare il passaggio di tremila prigionieri senz’acqua e con poco cibo attraverso il culdisacco della valle di Sulmona; e gli uomini – le cui capacità di resistenza erano state diminuite da diversi anni di prigionia – durante il giorno avevano cominciato a soffrire per la fame, la sete e la stanchezza. (…) C’erano almeno 1500 prigionieri sul fianco della montagna dietro il campo; alcuni, è vero, si erano riparati tra gli alberi, nei crepacci, nei fossi, nei borri dietro le colline e le montagnole, ma molti erano all’aperto, perfettamente visibili dal campo stesso. (…) Guardo di nuovo in su. I miei occhi si posano sui resti della vecchia casa di Ovidio sul fianco della montagna, a sinistra del campo. Le rovine splendono come una melagrana nel sole. (…) Pietro, quello dalla voce profonda, ci disse che il monastero sulla collina nel quale volevamo rifugiarci era già stato occupato dai tedeschi>>.
"Marciamo da quattro ore quando troviamo il primo campo coltivato, coperto da sottili steli di grano. La nebbia si è sollevata e la valle è illuminata dal sole come le montagne. La foresta di betulle è ormai alle nostre spalle e ci avviciniamo alle pendici meridionali del Morrone. A nord-ovest una città sorge nel mezzo della vallata: è una vecchia conoscenza, Sulmona. «Grazie a Dio!» dice Sherk. «Finalmente siamo a sud di quella città! Ci abbiamo messo cinque settimane!» «E siamo ancora liberi», nota Sam. «Addio campo, addio Sulmona». Le ultime pendici sono molto ripide. A destra compare un’altra città: è Pacentro, dorata e piena di pace in cima ad un colle invaso dal sole. Troviamo la prima strada e l’attraversiamo due o tre volte, di tornante in tornante. Più in basso attraversiamo un fiume su un solido ponte di pietra. Poi saliamo di nuovo, torniamo a discendere, tagliamo per i campi e infine giungiamo in vista della strada che porta a Campo di Giove. La seguiamo per un miglio. Compare Campo di Giove. Sorge su un rilievo, e si vede subito la chiesa di solida pietra. Le mura delle case sono marrone e dorate, il villaggio è piccolo e compatto, concreto e grazioso nella morbida luce del sole."

"Quando traversammo la ferrovia cominciava a calare l’oscurità. Andammo direttamente in su. (…) Dopo un’ora eravamo fuori dalla zona dei cespugli. Venti minuti dopo, senza fiato, ci trovammo sul crinale più elevato. Sotto la luna sembrava stretto, affilato e chiaramente delineato come l’elica arrovesciata di una nave colossale. Sotto di noi si stendeva un mondo immenso, mezzo in ombra e mezzo illuminato, composto di una serie infinita di picchi immobili e sereni nella radiazione lunare; di una successione sterminata di strapiombi e di abissi nelle cui profondità l’occhio non poteva penetrare, poiché il fondo era immerso nella più profonda oscurità. Riposammo fino a poco prima dell’alba, quando iniziammo la discesa. Scendemmo direttamente verso il basso, e presto scoprimmo di esserci persi in una foresta di alberi alti, di una specie che non conoscevo. Poi calandoci per un declivio scosceso dove non c’erano alberi, vedemmo, a meno di cinquecento metri da noi alla destra e al nostro stesso livello, un edificio a quattro piani, costruito su di una roccia; le sue mura consunte e gialle splendevano sotto il sole al di sopra di un baratro profondo almeno centocinquanta metri. «Deve essere un monastero…» disse Sam."
"Il sole era tramontato quando cominciammo a scendere il pendio alla nostra sinistra. Passo passo giungemmo in vista del fiume o meglio della sottile nebbia che si sollevava da esso. Lontano, alla nostra destra, sulla riva del fiume c’era il paese di Ateleta; e una strada, fiancheggiata dalla linea tranviaria, correva lungo l’argine settentrionale. Leggermente a destra oltre il fiume c’era il villaggio di Castel del Giudice in cima a una collina alta e isolata. Una strada si dirigeva verso di esso, e poi ne usciva continuando lungo l’argine meridionale in direzione dell’Adriatico; sulla vetta più alta del crinale davanti a noi si vedevano le chiazze bianche delle case di Capracotta, il nostro obiettivo di quella tappa."


Uys Krige, un evaso dal campo di concentramento Fonte d'Amore sito in Sulmona che ha raccontato la sua esperienza in un importante libro “The way out”.

BORGO MEDIEVALE DI GESSOPALENA

Posto lungo la storica Linea Gustav, durante la seconda guerra mondiale il borgo medievale fu devastato e minato dai tedeschi per cercare di rallentare l'avanzata delle forze alleate nel Dicembre del 1943. L'antico borgo è interamente scavato nel gesso su un masso chiamato "Pietra Lucente". Rappresenta un luogo di grande importanza storica: passeggiando tra le vie che una volta avevano vita si respira una certa malinconia. Ciononostante, ha una bellissima vista sulla Majella.

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